Quando si soffre di
artrosi in fase avanzata, resistente alla terapia conservativa e si manifestano
forti dolori cronici,
difficoltà funzionali che rendono difficili le normali attività quotidiane oppure quando si è
subìto un trauma grave può rendersi necessario intervenire con la sostituzione protesica dell’articolazione dell’anca.
Il dottor Gianni Nucci specialista in Ortopedia di
Santa Rita Hospital di Montecatini Terme (PT) – autore del libro
“Anca: istruzioni per l’uso” pubblicato lo scorso ottobre con la prefazione del
Prof. Enrico Castellacci - risponde a
10 domande frequenti sulle patologie dell’anca e i trattamenti.
Si può parlare di ereditarietà per l’artrosi dell’anca?
Non si può parlare di vero e proprio “gene dell’artrosi d’anca”, ma ci sono alcune condizioni genetiche ereditarie che possono portare a uno sviluppo precoce dell’artrosi. Le articolazioni di alcuni pazienti si consumano e invecchiano più rapidamente di altre e su questo processo può incidere la familiarità.
Le patologie dell’anca colpiscono solo gli anziani?
I problemi all’anca si manifestano a tutte le età, non colpiscono solo le persone più mature. Ci sono alterazioni che si presentano fin dalla nascita o a seguito di patologie o traumi che rischiano di portare a un consumo precoce dell’articolazione,
anche in giovane età.
Si può riscontrare una sofferenza dell’anca anche per
problemi legati ai vasi sanguigni che portano il nutrimento alla testa del femore o per traumi recenti così gravi che impongono la sostituzione dell’articolazione.
A volte si rende necessario intervenire persino sui bambini, che necessitano di interventi di osteotomia (sezione di uno o più ossa) per ricentrare il lavoro di un’anca che lavora male o è fuori posto dalla nascita.
Se l’anca è consumata, la fisioterapia è efficace?
Se si intende un movimento in scarico – cioè non gravato dal peso del corpo, da sdraiati o in acqua alta - che cerchi di mantenere una certa articolarità e di rinforzare i muscoli sollecitando poco l’articolazione, allora la fisioterapia può essere un valido aiuto in casi non gravi o in fasi in cui l’infiammazione sia moderata.
La cartilagine si può ricostruire? Come agiscono cellule staminali e fattori di crescita?
Nella maggior parte dei casi e per come viene inteso dai pazienti, non si ricostruisce la cartilagine. Non c’è un’iniezione che viene fatta in un’articolazione e fa rigenerare una superficie articolare cartilaginea nuova e sana. Possiamo certo aiutare l’articolazione in vari modi, ma non farla “tornare indietro nel tempo”.
A cosa servono i trattamenti conservativi, solo a posticipare il trattamento chirurgico?
Quando siamo di fronte a una patologia non grave o comunque a un consumo non grave, possiamo rimandare l’intervento e spesso scongiurare il ricorso alla protesi, mentre per una fase avanzata è difficile non arrivare alla chirurgia di sostituzione.
Si cerca certo di attuare ogni possibile trattamento per procrastinare la chirurgia protesica, valutando caso per caso la qualità di vita del paziente e le sue esigenze, anche rispetto all’abituale attività lavorativa e sportiva.
Di quale materiale sono fatte le protesi?
I materiali di riferimento sono leghe di titanio, acciai speciali, particolari plastiche antiusura e ceramiche tecnologicamente avanzate. Le parti che compongono una protesi d’anca sono lo stelo protesico, in lega di titanio, che si incastra nel femore; il cotile, cioè la coppa di lega di titanio che si incastra nel bacino; la testina che si applica sullo stelo, in ceramica o metallo; l’inserto che si applica all’interno del cotile, in ceramica, acciaio o plastica speciale che può essere addizionata di vitamina E per prolungarne la vita e ridurne il consumo.
Si sono affermate anche protesi con un doppio snodo interno, chiamate
a doppia mobilità, che offrono molti vantaggi sia per i pazienti più giovani sia per gli anziani in termini di mobilità, stabilità e durata. ? importante verificare che non sussistano allergie alle sostanze contenute nella protesi, che siano metalli come il nichel (o nickel come scrivono gli anglosassoni) o il cemento, che viene utilizzato in alcuni interventi per fissare le componenti protesiche all’osso.
La ceramica, in particolare, viene usata solo per le testine e per gli inserti, e non sempre: si tratta di un materiale molto resistente al consumo ma più fragile riguardo agli urti, e non sempre è indicato usarlo; inoltre, usare una testina e un inserto entrambi in ceramica potrebbe causare fastidiosi rumori di sfregamento.
Spesso l’accoppiamento migliore tra testina e inserto risulta essere
ceramica-polietilene (il polietilene è una plastica particolare che unisce caratteristiche di durata, scorrevolezza e stabilità), soprattutto nella “doppia mobilità” in cui una coppa in polietilene si muove nel cotile protesico e la testina si muove a sua volta nel polietilene stesso, aumentando il range di movimento in sicurezza. In conclusione, è bene ribadire che l’uso della ceramica va valutato sempre nel singolo caso.
Cosa si intende quando si parla di intervento mininvasivo?
Il concetto di mininvasività non si riferisce alla lunghezza dell’incisione e quindi della cicatrice sulla pelle, ma a
come si interviene in profondità: mininvasivo significa risparmiare tessuti (spostarli e non tagliarli per arrivare all’articolazione) e osso (usando la protesi giusta per il paziente senza togliere troppo osso). Va chiarito che non voler fare un taglio troppo lungo sulla cute, perché la cicatrice risulti più contenuta, sottopone le strutture anatomiche a trazione eccessiva, con possibilità di lesioni, strappi e calcificazioni dei tessuti molli da sofferenza. Anche in questo caso, bisognerà valutare per ogni paziente la via d’accesso e la protesi più consona.
Qual è l’accesso chirurgico per intervenire sull’anca?
Le principali vie di accesso che vengono utilizzate sono
la via anteriore e la posterolaterale.
Si interviene anche attraverso la via laterale diretta e quella anterolaterale, che però a mio avviso hanno degli evidenti svantaggi in termini di aggressione ai tessuti.
Nella via di accesso anteriore il paziente è posto in posizione supina. Il chirurgo sposta i tessuti sotto all’inguine a livello della radice della coscia per arrivare alla porzione anteriore della capsula articolare dell’anca. Così le strutture anatomiche vengono divaricate e si effettua un taglio solo sulla capsula stessa, oltre che su cute e sottocute.
Il vantaggio è di non incidere molte strutture - ma spesso esse vengono stirate e stressate - e a volte parzialmente tagliate, per arrivare a intervenire meglio possibile, con successivi problemi di dolore e alterazione della sensibilità anche irreversibili. Inoltre, se si dovesse verificare una frattura dell’acetabolo o del femore durante l’intervento, non sarebbe possibile procedere da questa via per correggerla e andrebbero praticate un’altra incisione cutanea e un’altra via di accesso mettendo il paziente di fianco e quindi con la necessità di spostarlo e riposizionarlo contestualmente.
Nella via di accesso posterolaterale tradizionale il paziente è sul fianco e l’incisione è eseguita subito al didietro della sporgenza del gran trocantere al lato dell’anca, dall’alto verso il basso. L’incisione è piuttosto ampia e porta a dover tagliare tutto lo strato di muscoli extrarotatori per poter accedere alla regione posteriore della capsula articolare; sono state quindi sviluppate diverse tecniche per poter risparmiare più tessuti possibili, alcune addirittura che comportano due piccole incisioni separate.
La via di accesso che ho sviluppato e ottiimizzato personalmente, e che uso nella maggior parte dei casi, è quella che prevede
una singola piccola incisione (dieci centimetri massimo)
obliqua lievemente posteriore e superiore all’apice del gran trocantere, dalla quale si riesce agevolmente a passare tra le fibre del grande gluteo, spostare il medio gluteo, spostare il piccolo gluteo, i gemelli e l’otturatore, distaccando solo il tendine del muscolo piriforme che verrà poi reinserito in posizione anatomica alla fine. Si espone così agevolmente la capsula posteriore, la si può incidere, repertare (cioè prendere con dei fili di sutura e ribaltare indietro per proteggere le strutture posteriori come il nervo sciatico) e reinserire a fine intervento.
Quanto dura la protesi impiantata?
Gli studi dimostrano che una protesi può durare in media sui venti anni, ma la sua durata effettiva dipende da come viene trattata e da diversi fattori, come la qualità dell’osso del paziente, il suo peso, i piccoli o grandi traumi della vita quotidiana. In caso di usura della protesi, può rendersi necessario un nuovo intervento per sostituirla nuovamente.
Quando si rende necessaria la sostituzione della protesi, dobbiamo introdurci ulteriormente nel bacino e nel femore per trovare osso sano su cui inserire le nuove componenti, quindi è chiaro che la possibilità di riuscire ad attaccare bene una protesi all’osso si riduce ogni volta che si procede a una revisione dell’impianto.
Con la protesi è possibile fare attività sportiva?
Se la protesi è ben integrata, è possibile fare sport, preferibilmente scegliendo attività che non siano troppo traumatiche come le arti marziali o i combattimenti in genere. Alcuni pazienti sono tornati a giocare a calcio o a correre la maratona. Va tenuto presente però che la protesi, come struttura meccanica, può consumarsi prima, rompersi o scollarsi dall’osso se sottoposta a traumi o stress ripetuti. Il consiglio è di eseguire un’attività fisica poco traumatica come le camminate, la bicicletta, il nuoto.